Il manicomio di Cogoleto

Valentina Nicoli
34 min readOct 24, 2020

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Un segreto sotto gli occhi di tutti

Anime di Cartapesta

“Le rovine diventano l’inconscio di una città,

la sua memoria, lo sconosciuto,

il buio, la terra desolata.

Una rovina urbana è un posto che è caduto

al di fuori della vita economica della città

e in qualche modo è una casa ideale per l’arte,

che sta al di fuori della produzione ordinaria

e del consumo delle città”.

1. Introduzione

2. Ospedali psichiatrici e regolamentazione: la storia delle leggi sui manicomi nel corso del ‘900

3. Gli ospedali di Quarto e di Cogoleto: una storia intrecciata

4. Il manicomio di Cogoleto: la struttura, i degenti, le pratiche e i racconti

4.1 L’organizzazione

4.2 La struttura

4.3 La popolazione del manicomio

4.4 Storie e racconti dal manicomio

4.5 Verso la chiusura

5.La struttura di Pratozanino oggi

5.1 Gli attuali proprietari

5.2 I progetti futuri per la struttura

5.3 La collocazione degli spazi del manicomio nella città

5.4 La chiesa: un tesoro artistico da mantenere

5.5 Sondaggio: la percezione dei cittadini

Bibliografia

1. Introduzione

In questo progetto si parla di Cogoleto, un comune della riviera di ponente in provincia di Genova che conta circa 9.000 abitanti. La storia di Cogoleto ha inizio intorno agli anni 1000, anni ai quali risalgono i primi scritti; in principio di trattava di un paese di pescatori che, con lo sviluppo industriale dell’800 e del ‘900, è andato via via trasformandosi in una cittadina industriale con la costruzione di due fabbriche. La prima ad arrivare nel 1906 fu la Tubi ghisa, fondata dai fratelli Balleydier e soprannominata il “Pane di Cogoleto”, perché dava lavoro a molte famiglie del borgo. Inizialmente produceva tubi in lamiera di acciaio saldati a gas d’acqua per condotte forzate ad alta pressione. La seconda fabbrica ad essere costruita fu la cosiddetta Stoppani, ovvero la Luigi Stoppani Spa, che produceva sodio, potassio, cromo e derivati. Si cercò molteplici volte di far chiudere quest’ultima, ma essa resistette anche quando le leggi iniziavano a rendere difficoltosa la produzione di cromo. La Tubi Ghisa venne messa in vendita dalla Saint-Gobain-Pont-à-Mousson e comprata dalla Geo Srl. La Stoppani, invece, fu chiusa dopo gli immensi danni ambientali e umani causati alla cittadina ed è attualmente in stato di smantellamento. La “terza vergogna” di Cogoleto risale anch’essa al ‘900, ma non si tratta di una fabbrica, bensì del noto manicomio di Pratozanino.

Questi tre edifici non si trovano in zone centrali, bensì nella periferia della città, alla sue spalle verso monte. Il borgo di Cogoleto, costruito all’epoca dei pescatori, è condensato in un piccolo centro costituito di case e negozi e attraversato da una via principale. Man mano che ci si allontana da questo fulcro si trovano le case attualmente abitate dai cittadini, ma che in passato erano riservate agli industriali, che si diradano verso monte, dove incontriamo anche i tre imponenti segreti della città: la Tubi Ghisa, la Stoppani e il Manicomio. Per quanto tutte e tre circondate da case, la distanza dal centro si sente e il vuoto che si è cercato di creare loro attorno si nota a colpo d’occhio, soprattutto se posto a confronto con la pienezza del centro cittadino. Ma, in fondo, è quest’ultimo che il Comune vuole valorizzare ed è il passato che vuole nascondere: ad oggi Cogoleto è promossa nel suo essere cittadina antica con chiese e monumenti, nel suo essere cittadina di mare, con le spiagge esaltate e la passeggiata ricostruita recentemente, e nel suo essere così vicina al Parco del Beigua, patrimonio dell’Unesco, non certo per essere stata città industriale e ubicazione del più grande manicomio della Liguria, se non dell’Italia. Né le cartine della città, né il sito del comune accennano minimamente a questi tre luoghi di memoria storica, abbandonati o semi-abbandonati a sé stessi.

Cartina turistica di Cogoleto

Si tratta di posti che un tempo davano da vivere alle persone, posti attorno ai quali ruotavano le vite dei cittadini nei loro ritmi e nelle loro abitudini, ma che oggi sono caduti al di fuori dell’economia, e quindi al di fuori della memoria e della conoscenza. Sono tre edifici di cui, spesso, anche coloro che vivono a Cogoleto sanno poco e che rappresentano contemporaneamente un passato dimenticato e un futuro incerto: infatti, per quanto venduti o in via di smantellamento, per nessuna delle tre strutture vi è un progetto nero su bianco. Circondano la città, immersi a loro volta in spazi vuoti, e restano come monito e possibilità, promessa.

2. Ospedali psichiatrici e regolamentazione: la storia delle leggi sui manicomi nel corso del ‘900

Gli ospedali psichiatrici nacquero in Italia già nel XV secolo, ma fu solamente nel 1904 che ottennero una prima regolamentazione. In realtà l’elevato numero di pazienti aveva portato a soppesare la possibilità della creazione di leggi in merito già nel XIX secolo: venne infatti proposto nel 1874 un “progetto di regolamento” che non venne però mai posto in atto. Fu solo nel 1902 che Giolitti propose un disegno di legge “Disposizioni intorno agli alienati e ai manicomi” che aveva lo scopo di regolare tutte le strutture senza alcuna distinzione. Il disegno di legge si basava su quattro punti essenziali: l’obbligo di ricovero in manicomio solamente di dementi pericolosi o scandalosi; l’ammissione solo tramite procedura giuridica (fatta eccezione per casi urgenti); l’attribuzione della spesa alla Provincia; l’istituzione di un servizio speciale di vigilanza dei degenti. La legge n. 36 venne approvata il 14 febbraio 1904 con alcuni modifiche: le dimissioni del malato potevano avvenire solo a seguito di un decreto del tribunale su richiesta del direttore della struttura e il “licenziamento in via di prova” (una dimissione temporanea) concesso al malato che avesse dimostrato dei miglioramenti. Venne quindi per la prima volta stabilito un criterio di internamento: la pericolosità sociale e lo scandalo. Non si entrava in manicomio perché si era malati , bensì perché improduttivi, pericolosi e di pubblico scandalo. Questa legge, che restò in vigore fino al 1978, aveva come unico scopo quello di proteggere la città dal “matto”, ma non teneva minimamente in considerazione i bisogni ed i diritti del malato. Sicuramente una legge innovativa, ma che lasciava alla discrezione dei medici e dei direttori la condizione in cui il paziente avrebbe vissuto una volta internato.

In epoca fascista venne creata, a Bologna, la Lega Italiana di Igiene e Profilassi Mentale il cui scopo era quello di restituire ai manicomi una funzione curativa a discapito di quella detentiva e di sicurezza, che aveva avuto la meglio fino a quel momento. Ma i cambiamenti apportati, per quanto innovativi, non furono determinanti. O almeno non quanto lo fu l’intervento di Basaglia. Francesco Basaglia era uno psichiatra e neurologo che, per via delle sue idee innovative, non era ben voluto nell’ambito accademico; proprio per questo motivo, a seguito della laurea, si trasferì a Gorizia dove divenne direttore dell’ospedale psichiatrico. Per lui, vicino alle correnti di ispirazione fenomenologica ed esistenziale, l’impatto con il manicomio fu estremamente duro, motivo per cui nel 1962, a seguito di alcuni soggiorni all’estero, avviò alcuni esperimenti di cura del malato anti-istituzionale (es. comunità terapeutica), eliminando tutti i tipi di violenza fisica e integrando alle terapie farmacologiche le relazioni umane. Per Basaglia, così come per altri, fu l’inizio di una riflessione sociopolitica sulla trasformazione dell’ospedale psichiatrico e sulle nuove esperienze nel trattamento della follia. Da Gorizia Basaglia si spostò a Parma e poi a Trieste. A metodo consolidato aveva solo bisogno di creare una legge per poterlo applicare in ambito nazionale. Il problema di fondo era la società arretrata che rendeva necessaria un’opera di persuasione. Furono raccolte 7000 firme dal partito radicale contro la legge del 1904; un referendum era alle porte ma non vi erano certezze in merito a quel che avrebbe votato la popolazione. Per questo motivo i politici decisero di non procrastinare e di arrivare ad una decisione nei tempi più brevi possibili: vennero organizzati dibattiti e mobilitati personaggi di rilievo nel campo della psichiatria, primo fra tutti Basaglia. La legge 180/1978 non fu mai discussa in aula, ma venne approvata in commissione senza possibilità di voto e discussione per i deputati. Questa legge, conosciuta come “legge Basaglia”, stabiliva che le persone con disturbi mentali dovessero essere assistite nei servizi decentrati e, nei casi più gravi, in speciali unità inserite negli ospedali; il fulcro fu però il trattamento sanitario volontario. Si tratta di una legge innovativa, che senza dubbio ha incontrato diverse difficoltà nella sua applicazione e non poche opposizioni, in quanto si andava ad affidare pazienti alle famiglie, a togliere posti di lavoro, a dare il via a un tentativo di cambiamento non indifferente. Ma fu anche una legge in grado di ridare dignità al malato. Ci vollero vent’anni perché il pensiero comune si facesse omogeneo e i manicomi venissero definitivamente chiusi e la riforma migliorata. Ad oggi i 76 manicomi precedentemente attivi sono stati sostituiti da day hospital, centri di recupero e comunitari e serivizi psichiatrici negli ospedali.

3. Gli ospedali di Quarto e di Cogoleto: una storia intrecciata

Durante l’Ottocento i malati psichiatrici erano raccolti in edifici noti come “ospedali degli incurabili”, dove i degenti erano principalmente sifilitici e matti. Il primo vero e proprio manicomio aperto nella zona di Genova, che si trovava proprio nel centro città, fu quello di via Galata attivo dal 1840 al 1912; la fine di questo ospedale psichiatrico fu decretata principalmente dalla sua posizione: infatti non solo si trattava di una zona appetibile per turismo e scopi di risalto della città, ma i cittadini erano anche contrari ad una tale vicinanza dei malati psichiatrici.

L’ospedale di Genova Quarto venne inaugurato nel 1895. Da quel momento in poi si sviluppò un circuito ampio e di enorme rilievo, tanto da dover richiedere una specializzazione istituzionale. Ma non solo, il numero di degenti era talmente elevato da necessitare una struttura di supporto: così nel 1905 venne approvata la costruzione del manicomio di Cogoleto, nell’ottobre del 1906 iniziarono i lavori e nel dicembre del 1910 venne aperta la struttura. Cogoleto, fino a quel momento, era un comune in provincia di Savona, ma, per rendere possibile l’apertura dell’ospedale psichiatrico, esso passò sotto la provincia di Genova. I due manicomi, insieme, arrivavano a contare 5000 pazienti. In particolare l’espansione del manicomio di Cogoleto derivava dall’assorbimento dei malati provenienti dalle strutture di La Spezia, di via Galata e di Mondonuovo, ormai chiuse. Nel 1914 il manicomio di Pratozanino contava 948 pazienti e nel 1927 arrivò a 1423, un numero aumentato e destinato ad aumentare ancora in corrispondenza delle due Guerre Mondiali. Nonostante nel 1926 fosse stato evidenziato in modo negativo dalla Commissione di Vigilanza sui manicomi a causa del suo sovraffollamento e alla mancanza di reparti obbligatori per legge, il complesso manicomiale di Cogoleto continuò la sua crescita aumentando il numero di padiglioni, una parte destinata ai degenti e un’altra usata come laboratori ed edifici per il lavoro. Nel 1937 Cogoleto inglobò anche la struttura di Paverano, aumentando ulteriormente il suo affollamento.

Fu nel 1974, con il cambiamento amministrativo di Genova e sulla scia di movimenti politici che caratterizzano la storia degli anni ’60, che si ebbero le prime denunce verso il sistema manicomiale e i relativi processi di deistituzionalizzazione e decostruzione dei manicomi. A Genova il primo passo in questa direzione fu la pubblicazione del “Libro bianco sui manicomi genovesi” redatto dalle organizzazioni sindacali e volto a denunciare fenomeni di alienazione e violenze all’ordine del giorno nei due manicomi di Quarto e Cogoleto. Raccogliendo articoli, report medici, frammenti di regolamenti e i numeri dei pazienti, questo libro non tralascia nessun dettaglio in merito alla situazione in cui vertevano i due ospedali. A seguito di questa pubblicazione l’amministrazione provinciale si ritrovò ad avere a che fare con richieste ben precise, che mostravano un rifiuto per la legge del 1904 e che chiedevano la riorganizzazione dei centri psichiatrici. La peculiarità di questa insurrezione sta nel fatto che fu condotta dagli stessi impiegati, medici e infermieri delle strutture. Tali proteste, unite alla legge 180/1978 diedero il via al cosiddetto “periodo buio dei manicomi genovesi” caratterizzato dall’assoluta incapacità del territorio ligure di gestire la chiusura degli ospedali psichiatrici. Scelte politiche ed economiche sbagliate lasciarono che la situazione si degradasse lentamente; fu solo dal 1990 e più attivamente dal 1993, che ebbe inizio una vera attività di deistituzionalizzazione dei manicomi di Quarto e Cogoleto. Sia l’ospedale di Quarto, sia quello di Cogoleto cessarono definitivamente di esistere nel 1998.

A seguito della legge Basaglia e della chiusura dei manicomi vennero designate strutture alternative e vennero inaugurati i cosiddetti “servizi psichiatrici alternativi” presso gli ospedali San Paolo di Savona, Micone di Sestri, Villa Scassi di Sampierdarena, Gaslini e San Martino di Genova centro.4. Il manicomio di Cogoleto: la struttura, i degenti, le pratiche e i racconti

4.1 L’organizzazione

Il manicomio nacque all’inizio del ‘900 a supporto della struttura di Quarto; i padiglioni sorsero poco per volta, uno dei primi fu quello che venne poi dedicato alle donne e che si trova nella parte bassa vero il fondo. Agli anni ’20 risalgono invece due padiglioni per gli “alienati tranquilli” e un padiglione dei piccoli agitati. Ancora successivi sono invece il 12, il 14 e il 17, che risalgono al 1922 e il 18 e il 19, costruiti come ultimi negli anni ’30. Anche la chiesa, una delle strutture più note, è stata aggiunta solo nel 1930 circa; prima della sua costruzione l’unico edificio religioso era una cappelletta. Il manicomio è molto ampio, girarlo in macchina, entrando nei vari padiglioni, richiede circa due ore. Le strutture sono immerse nel verde, ad oggi incolto e popolato da alberi e arbusti, ma al tempo curato e ordinato, caratterizzato da prati. I degenti lavoravano e questo permetteva al manicomio di essere l’unico autosufficiente in tutta Italia; la popolazione dell’ospedale produceva tutto ciò di cui avevano bisogno sia lì a Cogoleto, sia a Quarto. Vi era infatti un padiglione adibito a lavanderia (sorto nel 1924), uno a falegnameria, uno a panificio, uno a officina meccanica per la produzione e l’aggiustamento degli attrezzi utilizzati. Vi erano inoltre campi da coltivare e bestie da allevare.

L’ospedale psichiatrico è sempre stato gestito dalle suore, intransigenti e burbere per la maggior parte. “Quando venivano consegnati sacchi aggiuntivi di cibo loro li sequestravano. Non concedevano mai nulla, nemmeno un pezzo di formaggio, più di quanto dovuto e stabilito”. Il primo direttore della struttura, dal 1911 al 1926, fu De Paoli. Gli infermieri impiegati nella struttura erano circa 1026, mentre il manicomio aveva posto per 2300 pazienti.

Figura 2-Suore e infermiere

La struttura di Cogoleto era basata sull’idea del manicomio “a villaggio”. Dopo l’esperienza di Via Galata si cercò di costruire degli spazi più verdi e luminosi, meno cupi; a Pratozanino questo aspetto riuscì particolarmente bene. Inoltre, mentre l’edificio di via Galata era basato sulla concezione di controllo dei pazienti e sull’idea di Panopticon, con un punto centrale in grado di vedere e controllare ogni altra zona della struttura, a Cogoleto non è così: la piantina dell’ospedale ricorda una vera e propria cittadina. Ovviamente questa apertura strutturale non rispecchiava completamente i concetti alla base del metodo di cura, ancora incentrati sul controllo e sul contenimento piuttosto che sulla cura, sui comportamenti singoli piuttosto che sulle persone e le personalità. Nonostante ciò Pratozanino rappresentava un caso particolare in cui era stato fatto un passo avanti, un passo nella stessa direzione in cui si muoveva Basaglia: il contenimento e il controllo erano presenti, e sicuramente anche un alto livello di depersonalizzazione, ma i malati si pensava dovessero essere aiutati e curati. Questa idea, ovviamente, prese piede a poco a poco con il trascorrere degli anni e con le innovazioni in campo psichiatrico.

Suore e infermiere — Da archivio comunale Arci

Nel primo periodo i malati erano tenuti sotto stretto controllo: pochi avevamo il permesso di uscire e, nel caso in cui qualcuno venisse smarrito, i lavoratori dovevano continuare a cercarlo fino a quando non lo avessero trovato, che si trattasse di ore o giorni. Ogni operatore era responsabile degli atti delittuosi che il paziente poteva compiere contro sé contro gli altri; il controllo di tipo custoditarista-carcerario era evidente. Non esistevano spazi personali per i degenti, che non erano lasciati liberi di stare soli nemmeno in bagno. Anche i cortili, dove potevano recarsi, erano un’illusione di libertà in quanto erano sorvegliati dagli infermieri e non potevano far altro che camminare in tondo continuamente in questo spazio limitato. Tutto ciò si basa sull’idea di stampo positivista che la malattia mentale fosse collegata a un danno al cervello, quindi i manicomi non erano strutture per curare la malattia e alleviare il dolore, ma per controllare e arginare la persona finendo per aumentare la sua pena. Con il passare del tempo questo è cambiato: se si perdeva qualcuno al di fuori della struttura si firmavano i documenti per la dimissione, fingendo che fosse stato dimesso perché guarito. Se poi tornava allora si firmavano nuovi documenti per un altro internamento. Nel primo periodo i degenti venivano contati tre volte al giorno: mattino, mezzogiorno e sera. La sera, inoltre, venivano spogliati e perquisiti per accertarsi che non portassero armi o oggetti potenzialmente pericolosi come cucchiai nella struttura o nelle camere onde evitare ferissero sé stessi o gli altri.

“Ricordo una volta in cui un paziente era uscito e, quando era tornato ubriaco, lo avevamo portato nella sua cameretta. Lo abbiamo spogliato, ma indossava una cintura che era impossibile da aprire, così abbiamo strappato i vestiti e lo abbiamo messo nel letto. Poco dopo, quella notte, la sua camera ha preso fuoco. Nel passante della cintura aveva messo un cerino con il quale aveva dato fuoco al suo letto con lui sopra”.

“Donne e uomini si comportavano ed erano trattati diversamente. Le donne urlavano molto e si dimenavano, ma non le picchiavamo. Gli uomini cattivi sì; erano violenti e se dovevo scegliere fra essere picchiato o picchiarli sceglievo la seconda. Nel padiglione degli uomini matti entravano solo infermieri uomini e personale di una certa stazza, non era sicuro per i più piccoli o deboli”.

Personale del manicomio — Da archivio comunale Arci

“Era stata fatta una gita alla Madonna della Guardia con un gruppo di degenti e uno di loro si era perso; era uno zoppo quindi sono andati a cercarlo con calma, pensando non potesse essere andato lontano. E’ stato trovato giorni dopo in fin di vita in un fosso pieno di rovi nel quale era caduto senza riuscire ad uscirvi”.

Dopo la legge Basaglia il cambiamento principale fu rappresentato dall’inserimento di attività ricreative, come la pittura e il teatro. In realtà queste attività non erano particolarmente di aiuto ai pazienti, ma erano un business per chi vi si dedicava. Esse hanno però permesso di svelare talenti come quello del pittore Gino Grimaldi.

4.2 La struttura

La prima struttura che si incontra entrando è la portineria, uno degli edifici di più recente costruzione. Subito alla destra della portineria si trovano quelli che erano gli alloggi dei medici, palazzi piuttosto di lusso. La porta si trova in posizione centrale, quindi le scale dividono l’edificio in due parti dove si trovano gli appartamenti, tutti autonomi; alcuni di essi sono davvero immensi, composti da 6 vani. Al fianco di quest’ultimi si trova una struttura a due piani: al piano terra si trovavano gli infermieri e l’accettazione, al piano superiore la biblioteca. Entrando dal cancello si vede un lunghissimo viale; percorrendolo si trova subito sulla destra un edificio di classe che era la dimora del direttore, ampia e lussuosa. Procedendo, sempre sulla destra, si incontrano due padiglioni: quello dell’osservazione e le cucine. Poco più avanti sulla sinistra c’è invece la chiesa; di fronte ad esse c’è tutt’ora l’unica madonnina con la sua nicchia rimasta. Prima ve n’era una per ogni padiglione. Prendendo poi la strada sterrata sulla sinistra che scende nella parte bassa del manicomio abbiamo le cucine e la mensa, il forno, la lavanderia, la falegnameria, il meccanico, i due reparti femminili, uno per le malate e uno per le pazienti psichiatriche, e il padiglione dove vivevano le suore. Il padiglione delle donne è ad oggi il più pericoloso in quanto, essendo uno dei primi costruiti, minaccia di crollare e riporta numeroso crepe nelle pareti. Se si procede invece dritto, per la strada asfaltata, si incontrano i padiglioni dedicati ai laboratori e alle scuole, quelli dedicati ai bambini e, procedendo fino ai confini delle mura i campi e l’isolamento. Quest’ultimo era uno padiglione dedicato ai malati più gravi, non in senso psichico bensì in senso medico: i pazienti con malattie mortali o particolarmente contagiose venivano reclusi qui. Infine, se dalla chiesa si imbocca la via che va a destra si incontrano i padiglioni che erano dedicati alle cure mediche, quelli degli uomini e, infine, quelli ristrutturati e tuttora in uso.

4.3 La popolazione del manicomio

La popolazione del manicomio era piuttosto varia: non venivano, infatti, internati solamente i casi psichiatrici, bensì anche bambini senza famiglie, anziani in procinto di morire, malati (tubercolosi, scabbia, ecc.). Il tasso di mortalità era perciò molto alto sia per le malattie, sia per l’elevato numero di anziani. Da questa diversità delle cause dell’internamento derivavano permessi diversi: alcuni degenti non erano autorizzati a lasciare la propria camera, altri non potevano lasciare il proprio padiglione, pochi potevano lasciare la struttura. Inoltre, chi entrava nell’ospedale psichiatrico, non ne usciva.

Da archivio comunale Arci

“In quel tempo c’erano casi in cui le mogli tradivano i mariti e venivano scoperte a letto con gli amanti. I mariti si arrabbiavano e volavano botte. Allora le donne si recavano in comune o dal medico, compilavano semplicemente un modulo, e facevano internare il marito, sebbene non ci fossero segni di malattia psichica”.

I primi pazienti ricoverati arrivavano dalle strutture di via Galata e di La Spezia; la prima paziente in assoluto entrò nel 1912 all’età di diciotto anni.

“Era stata abbandonata alla nascita e quando fu grande non fu riconosciuta dalla mamma. Mi colpì quando lessi la cartella clinica della ragazza perché c’era scritto che era a servizio di un signore anziano. Questo signore le propose per scherzo di sposarla e lei iniziò a dare di matto; fu quindi portata al pronto soccorso dove fu legata stretta perché aveva iniziato a dare in ismanie. Io non credo che questo signore le avesse solo proposto di sposarla, non penso una ragazza diventi matta perché un anziano le propone per ischerzo di sposarla. Questa ragazza riuscì però ad uscire prima o poi e se ne andò con la madre”.

Nel periodo della Prima Guerra Mondiale vi fu un aumento vertiginoso dei ricoveri, soprattutto di uomini, ma anche di donne. I primi potevano essere internati sia per effettiva follia derivante da stress post traumatico, i cosiddetti “scemi di guerra”, sia perché fingevano di essere impazziti pur di non dover affrontare nuovamente gli orrori dei campi di battaglia e delle trincee. Spesso, fra i degenti, si trovavano anche i prigionieri di guerra dell’impero austroungarico che venivano presi dal Forte del Castellaccio e ricoverati per shock post-traumatico. Le donne, invece, impazzivano per tristezza e angoscia per i mariti e i figli in guerra.

“C’è il caso di una donna che era impazzita per l’angoscia dei figli in guerra; non era pericolosa né per se stessa, né per gli altri. Però camminava per le strade urlando straziata i nomi dei suoi figli, spesso con i ragazzini del paese che la seguivano e la prendevano in giro. Venne internata perché scene simili andavano contro il decoro pubblico”.

Fra i ricoverati erano numerosi anche i bambini, spesso internati anche molto piccoli, a quattro o cinque anni. Il motivo per cui ci sono bambini è che spesso le famiglie in gravi situazioni di privazione economica o di povertà culturale con bambini vivaci, che scappavano da scuola o facevano piccoli furti, non sapevano come gestirli. C’erano però anche bambini con reali deficit cognitivi che venivano chiamati frenastenici, oligofrenici, imbecilli o deficienti. “Mi è capitato di trovare la frase ‘è un cretino abbastanza intelligente’ perché la terminologia era quella”. Oppure c’erano gli epilettici, i rachitici o gli storpi, i sordomuti. “Ho trovato la cartella di un bambino gobbo che era nervoso perché veniva trattato male a scuola. Il dottore scrisse nel referto medico che era ovvio venisse trattato male, che venisse preso in giro, essendo lui gobbo. Una volta era così”.

La popolazione di Cogoleto era quindi molto varia: anoressiche, suicidi, persone affette da psicosi post-traumatica, omosessuali, malati di tubercolosi, di sifilide e altre patologie infettive, prostitute, anziani o persone scomode. “Donne eccentriche che portavano i capelli sciolti, vegetariane e che parlavano bene italiano” recitano alcuni documenti, rispecchiando come alcune cose oggi ritenute normali all’epoca fossero invece considerate stravaganti e sintomo di anormalità. Di molti internati, adulti e bambini, non si è mai tenuto traccia e non si sa nulla.

La maggior parte dei degenti non veniva mai dimessa e moriva lì, alcuni venivano dimessi ma non trovavano poi lavoro e finivano quindi per essere internati nuovamente.

4.4 Storie e racconti dal manicomio

“C’è le storia di questo bambino che ha scelto di entrare in manicomio. Era l’ultimo di diciotto figli e ci sono documenti che attestano la richiesta del papà di trattarlo bene e di non permettere alle infermiere di non picchiarlo con i mazzi di chiave come sembrava fossero solite fare dai racconti del bambino. Questo bimbo un giorno cerca di suicidarsi, impiccandosi con un lenzuolo; lo prendono appena in tempo e lo salvano, ma dopo poco muore di tubercolosi”.

“Beppe (nome inventato) era un paziente degli anni ’40 di otto anni che veniva da Struppa. Nella cartella clinica è scritto che è pauroso e piange quando viene messo sul lettino per timore gli vengano praticate delle iniezioni e continua in questo orientamento anche dopo ripetute rassicurazioni. È contrariato quando non sa rispondere a certe domande. Dice che si trova bene e non vuole ritornare nell’istituto da dove proviene”.

“Gigi fino a 6 anni è stato normale, poi con la scuola iniziano i problemi: il bambino è sguaiato e disubbidiente. Dice ai dottori che se lo tengono lì lui diventa pazzo. Un giorno si procura una ferita al volto e dice che è stata una signorina, un’infermiera, a causargli il taglio picchiandolo con una bacchetta: i medici scrivono che è un bugiardo nelle cartelle. Aveva l’abitudine di salire sul pergolato e per questo motivo è stato legato per lunghi periodi per impedire si facesse del male”.

Bambini — Da archivio comunale Arci

“C’è anche l’interrogatorio di una bambina a cui venne chiesto dove si trovava e rispose ‘tra i matti’ e alla richiesta del motivo per cui si trovasse lì rispose ‘perché ho fatto arrabbiare la direttrice dell’istituto dei deficienti, perché scappavo di casa e facevo la cattiva così la mamma mi ha detto che sono scema e mi ha mandato nell’istituto per deficienti. Se vado a casa non la faccio più la cattiva’. Per vedere se ragionava la venne chiesto se conosceva le tre persone della trinità; rispose di no, ma che sapeva quelli che son dieci e quelli che son sette (comandamenti e peccati capitali). Allora le venne chiesto di elencare i comandamenti e rispose ‘cominci lei che poi io continuo’. Le venne diagnosticata una frenastesia eretistica, si disse che aveva un’ideazione misera, frammentata, incoerente, dispettosa, indisciplinata, pigra, tendente al furto e con stigmate antropologiche degenerative”.

“C’era un soldato pittore che non era nemmeno matto, forse un po’ stressato; anche nelle cartelle era scritto che non era alienato. Egli divenne un pittore di una certa notorietà perché, oltre ad avere una sua produzione, era molto bravo a fare dei falsi leonardi. All’epoca non c’erano strumentazioni che potessero far capire che in realtà la pigmentazione non era del ‘400, li metteva addirittura in forno per replicare le crepe. Un giorno fece un falso leonardo, ma non per specularci, lo tenne per sé mostrandolo solo una volta in pubblico. Quando morì, negli anni ’80, lasciò una videocassetta per i suoi eredi dove si vedeva lui che dipingeva questo falso leonardo e diceva che la tela era un falso prodotto da lui. Quindi è una storia a lieto fine, non è rimasto dentro moltissimo ed è guarito dallo stress”.

“E’ la storia di una ragazza di 16 anni che fa l’infermiera in una casa di cura e poi in un manicomio entrambi a Firenze. Viene però poi licenziata nel momento in cui si ammala di peritonite e nel mentre le muore anche il marito in guerra. Inizialmente resta a casa con la mamma, poi decide di trasferirsi a Genova nella speranza di trovare lavoro sulle navi; va a servizio in un albergo, qui conosce un uomo più grande che le chiede di andare a lavorare per lui e per i suoi genitori. Ella diventa l’amante di quest’uomo e spera di farsi sposare da lui; si ammala però di tubercolosi e viene cacciata dal compagno con pesanti insulti. Lei supplica, ma non c’è niente da fare. Così acquista una pistola, gli spara e lo uccide. Viene portata subito a Marassi e qui viene chiesta una perizia psichiatrica; solitamente tutte le donne che hanno sparato a uomini vengono riconosciute in stato di infermità mentale. Succede anche a lei e muore di tubercolosi in manicomio”.

Rossella è una donna che ha scritto un memoriale di quaranta pagine sulla sua vita. Ella aveva avuto un figlio non sposata frutto di una violenza. Poi si trova un fidanzato eccessivamente geloso che le spara in testa tanto che le restano dei proiettili nel cranio e perde un occhio. L’uomo che ha fomentato questa gelosia si sente in colpa e le propone di sposarla; alla fine lei accetta. Vanno a vivere insieme e hanno inizio episodi di violenza del marito sulla donna, fino a quando un giorno la butta dalle scale, in presenza dei vicini, e mentre lei rotola lui la calcia e le versa addosso acqua bollente. I vicini chiamano i carabinieri che portano la coppia in centrale; qua riescono a convincere la donna a non sporgere denuncia dicendo che il marito non avrebbe più lavorato se fosse finito in prigione e lei non avrebbe saputo di cosa vivere, per non parlare dello scandalo che si sarebbe andato a creare. Alla fine lei cede e non lo denuncia; il marito non voleva nemmeno tornare a casa con lei, cerca di evitarlo, ma il maresciallo li accompagna fino alla porta di casa e qui li lascia. Gli episodi di violenza ricominciano poco dopo e il marito minaccia di farla internare in un manicomio. Un giorno lei, mentre torna a casa, trova un signore anziano sui gradini che la segue fino in casa; lei pensava fosse l’amministratore del condominio, in realtà si tratta di Enrico Morselli, un luminare della psichiatria che veniva da Villa Mariapia, una casa di cura per ricchi vicino all’abbazia di San Fruttuoso. La donna viene così, con l’inganno, portata a Paverano, dove si trovavano i casi meno gravi; in poco tempo, però, viene rilasciata in quanto si affermava che non fosse matta. Il marito, mentre la portava a casa in pullman, le urla contro che l’avrebbe rinchiusa di nuovo e non sarebbe più uscita. In effetti, sempre attraverso Morselli, ci riesce e la interna, questa volta a Pratozanino. Anche qui gli psichiatri vorrebbero rilasciarla subito non notando segni di follia, ma Morselli in persona dice loro che se l’aveva fatta rinchiudere un motivo c’era: era violenta e picchiava il marito, che non sapeva più cosa fare con lei. Vista le figura autoritaria del dottore la donna rimase in manicomio. Venne poi rilasciata solo tempo dopo e si trasferì a Trieste con il marito, con il quale aveva deciso di tornare nonostante tutto, e poco tempo dopo fu ricoverata, anche lì, in manicomio”.

Un’altra storia curiosa dal manicomio riguarda un impiegato di cui non si conosce l’identità. Egli ha trascritto in 34 quaderni, fra il 14 settembre del 1943 e il 27 luglio del 1944, il contenuto di programmi radiofonici. Era il periodo della guerra, quindi fra le trascrizioni ci sono sia le notizie ufficiali, sia i messaggi in codice criptati mandati ai partigiani o agli alleati. La trascrizione cessa quando gli venne boicottata la radio; scriveva infatti di nascosto da uno stanzino. Non si sa chi fosse, possiamo solo supporre si trattasse di una persona colta per via dei commenti alle trasmissioni, probabilmente un medico o un responsabile amministrativo.

“Una ragazza di sedici anni scrive una lettera alla madre dal manicomio: ‘mamma, ti ho vista arrivare qui l’altro giorno con il tuo sorriso ironico a ridere del mio immenso dolore. Cosa sei venuta a fare? Ti sei divertita a fare il viaggio?’. Questa ragazza viene internata perché era omosessuale. Nella sua cartella fin dall’inizio viene detto che era perversa, con un senso dell’erotismo spiccatissimo. Quando però si va a leggere c’è scritto che è molto intelligente. Le arrivano però tante cartoline da un’altra ragazza con cui aveva un legame particolare. Questa ragazza era stata ricoverata prima all’Albergo dei poveri, ma visto che qua aveva reazioni un po’ scattose viene spostata a Cogoleto. Da qui spesso scrivono alla famiglia dicendo che è una violazione dei diritti umani (siamo nei primi del ‘900) tenere una ragazza che non era malata e chiedono di andarla a prendere; i genitori accampano sempre scuse e lei resta dentro per almeno sette anni, per poi essere trasferita a Paverato”.

Un’intervista, tratta da “libro bianco sui manicomi genovesi” è particolarmente interessante. L’intervistato, il signor. S., che al momento dell’intervista ha 32 anni, era stato internato da suo padre, presso la struttura di Quarto, quando aveva 16 anni per dissidi familiari (’Ero discolo , vivace. Rispondevo a mio padre quando una cosa non la trovavo giusta mentre i miei fratelli restavano passivi’ ). Qui resta per circa 20 giorni, ma non è riconosciuto come pazzo. La seconda volta è stato ricoverato per gli stessi motivi, ma questa volta viene riconosciuto come malato in quanto recidivo. Nell’OP si è sempre trovato male perché lo accostavano vicino a persone più anziane con cui era impossibile instaurare un dialogo umano e questo veniva considerato da S. un danno per il recupero. Durante il periodo in cui si fa intervistare il paziente si trova a Cogoleto, ormai al quindicesimo ricovero. Dal terzo ricovero praticamente si è sempre ‘internato da solo’ poiché una volta uscito dal manicomio, non è più riuscito a trovare lavoro, nessuno voleva assumere un matto e dunque, per non gravare sulle spese del padre che non poteva più mantenerlo, aveva deciso di rientrare in manicomio. Attualmente si considera handicappato, poiché lo è diventato dopo 15 ricoveri.

Presepio — Anime di cartapesta, Giacomo Doni

Un elemento importante, noto a tutti, è il presepe realizzato dai degenti; esso nacque come piccolo progetto e si trasformò in qualcosa di più nel momento in cui i malati scelsero di rappresentare, attraverso queste statuette e costruzioni principalmente di cartapesta, la propria quotidianità. Esso era, ed è tuttora, una testimonianza della vita di tutti i giorni dei pazienti: vi sono rappresentate le camerette, il cimitero, i giardini, l’elettroshock, le visite mediche e molto altro. Attualmente questo presepe è custodito all’interno della chiesa, dove si trovava anche all’epoca, ed è stato oggetto di uno studio svolto da Giacomo Doni e che ha portato alla creazione di un libro con inserti fotografici, “Anime di cartapesta”.

4.5 Verso la chiusura

Nel gennaio del 1974 quando gli OPP di Quarto e Cogoleto in collaborazione con le organizzazioni sindacali C.G.I.L., C.I.S.L. e U.I.L. decisero di pubblicare un libro di autodenuncia: si tratta del “Libro bianco sui manicomi genovesi”. Questo libro fu una delle prove che dimostrava che qualcosa stava cambiando in ambito di cure psichiatriche, nel modo di vedere il malato e i suoi diritti, nel modo di interfacciarsi con la realtà del lavoro nelle strutture manicomiali. L’idea di pubblicare il “libro bianco” emerse durante un’assemblea pubblica organizzata con lo scopo di denunciare le condizioni critiche dei manicomi genovesi, e per questo, l’intento del libro era proprio quello di annullare le condizioni che vedevano come responsabili della violenze che avvengono nei manicomi gli infermieri, di spezzare l’isolamento in cui avvenivano le lotte dei lavoratori psichiatrici e di dare così vita ad un movimento che coinvolgesse altri strati di lavoratori, la popolazione e le forze politiche. Il libro è suddiviso in tre parti; la prima si sofferma sul tema dell’esclusione e dell’assistenza di genere; la seconda denuncia in modo diretto le condizioni di vita nei due manicomi di Quarto e di Cogoleto; la terza, infine, tenta di trovare proposte per migliorare la situazione attuale degli ospedali psichiatrici.

Passarono appena quattro anni fra l’autodenuncia dei sindacati e dei lavoratori e la legge Basaglia, che decretò la chiusura progressiva degli ospedali psichiatrici. Quando il manicomio di Cogoleto si avviò verso la chiusura i padiglioni vennero dismessi poco a poco, a partire da quelli per la produzione. Dei padiglioni che ospitavano i degenti i primi ad essere smantellati furono quelli più decentrati, il 17, il 18 e il 19; poi fu il turno del 12 e del 14, che avevano una capienza di oltre 300 persone l’uno. L’ultimo padiglione ad essere chiuso fu l’11 il 18 luglio 1998, dopo 88 anni di attività del manicomio.

Con l’avvicinarsi della chiusura definitiva il malati uscirono dal manicomio per essere ospitati da parrocchie, da centri per anziani, da appositi reparti negli ospedali. La maggior parte dei padiglioni diventarono, in un primo momento, un archivio dell’ASL 3 di Genova: qui venivano tenute non solo le cartelle cliniche degli ex pazienti, bensì anche tutte quelle dei cittadini della provincia. Inoltre, i documenti si trovavano in uno stato di abbandono e di estremo disordine: se un cittadino faceva richiesta per prendere visione della propria cartella trovarla diventava un’impresa. Tanti documenti furono distrutti o danneggiati da piogge che filtravano dal soffitto; quelli che restarono vennero poi spostati.

Solo una parte della struttura ha subito una ristrutturazione che le ha permesso di continuare ad ospitare i degenti; ad oggi sono circa 50, alcuni ex pazienti, altri nuovi internati provenienti da cittadine dei dintorni. Essi vertono però in condizioni peggiori. Sono gestiti dalla Asl 3 genovese, che non dedica loro personale a sufficienza perché siano seguiti come dovrebbero. Vengono somministrate loro medicine, ma non si controlla se essi effettivamente le assumano. Lo stesso vale per il cibo. Essi sono inoltre lasciati liberi di uscire e se non tornano, anche per giorni o settimane, nessuno va a cercarli. I casi più pericolosi sono sorvegliati dai carabinieri, ma recenti modifiche della recinzione fanno sì che anche questi pazienti possano uscire con facilità.

“Quando il manicomio è stato chiuso abbiamo portato i degenti in altre strutture. Io ne ho portato solo un gruppo, poi mi sono rifiutato. Ne stavamo portando tre verso una chiesa; il parroco li aveva accolti perché veniva pagato. Vicino a questa chiesa vi era un dirupo e non era stato messo adeguatamente in sicurezza, così uno dei pazienti è caduto giù ed è morto. Mi ricordo ancora i loro sguardi mentre li portavamo via.

Ad oggi la struttura è di proprietà di privati: il Comune ha venduto la struttura e ogni permesso, compreso quello di transito, con la conseguenza che al momento di svuotare i padiglioni o di trasportare qualcosa in quelli ancora attivi, i mezzi comunali non potevano transitare. Per quanto riguarda le strutture ancora attive esse sono state date in comodato d’uso per vent’anni dall’apertura all’ASL. La struttura è chiusa al pubblico, sono permesse visite solamente con permessi speciali. Capita però spesso che ragazzi o adulti entrino abusivamente, a volte facendo danni, a volte solo per curiosità. Gran parte dei padiglioni volgono in uno stato di degrado e gli unici lavori in corso sono quelli di rifacimento del tetto della chiesa e della canonica: essi verranno liberati dell’amianto e costruiti da zero al fine di poter preservare le opere pittoriche che si trovano all’interno della chiesa, sebbene non ci sia in programma di cambiare le modalità di accesso.

5.La struttura di Pratozanino oggi

5.1 Gli attuali proprietari

A seguito della chiusura il manicomio restò per alcuni anni proprietà del comune di Cogoleto. Fu solo fra il 2007 e il 2008 che, nell’ambito di un’operazione di cartolarizzazione con la quale la Regione mise all’asta diversi beni immobiliari per ripianare il divario economico della sanità, che l’edificio venne venduto. Sia la struttura di Pratozanino sia la struttura di Quarto finirono nelle mani di Fintecna Immobiliare per 203 milioni di euro; poco tempo dopo essere passarono a Valcomp Due S.r.l., una società interamente controllata da Fintecna.

Fintecna Immobiliare è un’associazione che ha per oggetto l’assunzione, la gestione la dimissione di partecipazioni in Società o Enti, operanti in Italia o all’estero nei settori industriale, immobiliare e dei servizi, che risultino in una stabile situazione di equilibrio e siano caratterizzate da prospettive di redditività, nonché la gestione e dimissione di partecipazioni già possedute in società o enti compresi quelli in stato di liquidazione. Inoltre Fintecna si occupa dell’acquisto e dell’alienazione di beni immobili di qualunque genere o destinazione, svolge operazioni e negozi giuridici compresa locazione, affitto, concessione in godimento e rilascio di garanzie. Fintecna è partecipata al 100% dalla Cassa depositi e prestiti, un organo statale. Si tratta di un’istituzione finanziaria controllata all’83% dal Ministero dell’Economia e delle finanze e al 17% da diverse fondazioni bancarie. La CDP opera all’interno del sistema economico italiano come una banca di stato e ha fra le sue attività principali la partecipazione nel capitale di rischio di medie e grandi imprese nazionali, quotate e non, profittevoli e ritenute strategiche per lo sviluppo del paese; da qui la partecipazione in Fintecna. Le principali fonti di raccolta di fondi utili alla CDP derivano dal risparmio poste italiano che la CDP gestisce, ma anche dalla raccolta obbligazionaria effettuata sui mercati. Queste risorse finanziarie sono poi impiegate principalmente nei prestiti verso lo stato e amministrazioni locali, nell’investimento nel capitale di rischio di imprese italiane che operano all’estero e nella partecipazione in progetti immobiliari.

Se ne deduce quindi che l’ex manicomio di Pratozanino è nelle mani di una srl di Fintecna, a sua volta partecipata interamente dalla CDP; la struttura è quindi nelle mani di organizzazioni statali che negli anni hanno avanzato proposte in merito al futuro della zona, che non sono però mai state accettate dal Comune. Esso, infatti, ha l’ultima parola in merito poiché l’ex ospedale psichiatrico si trova sotto la sua giurisdizione.

Per quanto concerne invece i padiglioni che sono tuttora in uso la questione è diversa. Quando la struttura è stata venduta a Fintecna i padiglioni 7 e 9 sono stati dati in comodato d’uso per vent’anni all’Asl 3 Genova. Nel 2007 la delibera n 1336 approva il progetto di ristrutturazione dei padiglioni 7 e 9 dell’Asl 3. Nel 2008 l’Asl indice la gara per l’affidamento del servizio di noleggio dei moduli abitativi per la ricollocazione dei pazienti: vale a dire che hanno noleggiato strutture prefabbricate al fine di ospitarvi i pazienti fino a quando i lavori di ristrutturazione non si fossero conclusi. Il bando è stato vinto dalla Fae Tecnifor con un’offerta di 288.000 euro per 18 mesi, prorogabili per altri sei; sono stati affittati 2 prefabbricati per un totale di 726 metri quadrati. Nel 2009 viene poi approvata con una delibera la ristrutturazione del padiglione 9 per una spesa di 2.064.044, 00 euro. L’anno successivo viene approvata anche quella del padiglione numero 7 per una somma di 2.272.746,11 euro. Le spese di rifacimento dei padiglioni e di noleggio dei prefabbricati ammontano a 4,3 milioni e sono state interamente coperte dalla Regione. Al termine del comodato d’uso di vent’anni non si hanno però certezze di cosà accadrà ai degenti o ai padiglioni, la decisione spetta a Valcomp.

5.2 I progetti futuri per la struttura

Ufficialmente i progetti futuri sono così descritti “L’area dell’ex ospedale psichiatrico è stata successivamente venduta e su di essa è già stato approvato un progetto che prevede la realizzazione di parecchie strutture lavorative a basso impatto ambientale, di strutture residenziali e commerciali”.

Nel contesto delle ufficialità, però, trovare progetti futuri per riqualificare la zona, che è opportuno ricordare essere di un certo valore sia in merito all’ampiezza sia al contesto botanico naturale, sembra essere una sfida ardua, poiché, come per molte informazioni inerenti il tema, sembra tutto coperto da un velo di riservatezza assoluta.

Qualcosa si sa di progetti che sono stati proposti in passato e mai approvati, per motivi poco chiari, dal Comune o dalla Regione. Una prima proposta avanzata fu quella di costruire una sorta di città virtuale, estremamente all’avanguardia sul piano tecnologico; il progetto venne presentato in modo completo e ricevette anche alcuni fondi, ma non andò mai in porto. Si pensa, addirittura, che possa essere stata tutta una truffa per ottenere fondi, impiegati poi in modo diverso. Una seconda opzione soppesata fu quella di trasformare lo spazio in un polo universitario che raccogliesse tutti i dipartimenti dell’università di Genova, ma anche in questo caso il progetto non fu mai completato. la terza, ed ultima, proposta di cui si sappia qualcosa di certo riguarda la costruzione di uno spazio dedicato al teatro; anche in questo caso non si è a conoscenza di un progetto ben definito e concreto per questo spazio perché l’idea venne respinta.

5.3 La collocazione degli spazi del manicomio nella città

Pratozanino è una frazione del comune di Cogoleto, da cui dista circa 2,5 km, nota, in particolare, per la presenza dell’ospedale psichiatrico. La posizione della suddetta frazione è alquanto strategica: distante al punto giusto dal centro abitato, ma abbastanza vicina da poter essere raggiunta dai 3500 lavoratori che la struttura richiedeva. Il manicomio, infatti, si sviluppa in particolare a nord di Pratozanino, un’altra sorta di distanziamento dalla frazione stessa, come a cercare una periferia nella periferia, un manicomio vicino, ma comunque esterno dai centri abitati. Doveva essere raggiungibile, ma abbastanza centrale da turbare la quiete degli abitanti e porre sotto gli occhi di tutti un soggetto così delicato come la malattia psichica. Due luoghi, il centro e il manicomio, incompatibili fra loro ma giustapposti all’interno della stessa città. Sono state proprio le relazioni fra pubblico e privato, fra “normalità” e devianza a definire gli spazi della città, spazi che non possono sovrapporsi: a questo è dovuta la dislocazione del manicomio a Pratozanino. Viene a crearsi un “luogo altro”, (quello compreso nel concetto di eterotripia di Foucault) distaccato dalla città e ovattato, dove i devianti possano essere contenuti e curati senza intaccare la quotidianità dei cittadini. Inoltre, ieri come oggi, il manicomio non è un posto accessibile a tutti e a suggerirlo sono gli altissimi cancelli e il muro di cinta: a separare ulteriormente questi due luoghi è la necessità di permessi per poter accedere alla struttura manicomiale. Oggi, più che in passato, l’accesso è diventato un privilegio di pochi.

Il manicomio si trova immerso un’ampia zona verde e sono poche le abitazioni nelle sue vicinanze; la Liguria si differenzia dalle altre regioni Italiane per la varietà dei suoi scenari, fatti di suggestive falesie a picco sul mare fino alle vette delle cime montuose più altre, raggruppa in un unico territorio una varietà straordinaria di diverse specie botaniche ed animali.

5.4 La chiesa: un tesoro artistico da mantenere

La costruzione della chiesa che si trova all’interno del manicomio venne ultimata nel 1933; lo stile ricorda il gotico, con il classico intonaco a righe, le lavorazioni e le finestre a traforo e a rosone. All’interno, la chiesa è sprovvista di colonne, una particolarità dovuta al fatto che i pazienti dovevano essere sempre ben visibili da infermieri e inservienti. Quando la costruzione terminò restava ancora da adornare la chiesa e si pensò di chiamare degli artisti esterni; ma proprio in quell’anno fu internato a Cogoleto Gino Grimaldi, un grandissimo artista non particolarmente noto. Venne quindi affidato a lui il compito di decorare le pareti della chiesa; i dipinti che realizzò non possono essere definiti come veri e propri affreschi, in quanto il colore andava a poggiare direttamente sulla pietra, ma sono di indubbio valore artistico. Proprio per via della tecnica di realizzazione, essi si sono deteriorati rapidamente; un primo restauro, al quale avrebbe dovuto seguire un secondo, è avvenuto, ma dopo di che essi non sono più stati curati. Il primo restauro è avvenuto grazie a ???? che ha portato in una mostra in giro per l’Italia una pala d’altare dipinta proprio da Gino Grimaldi e fino a quel momento tenuta nella chiesa del manicomio; questa iniziativa ha attirato l’attenzione sul problema della chiesa e delle sue condizioni, ma non è stato sufficiente a raccogliere i fondi per un secondo restauro. Al momento i dipinti sono in grave stato di deterioramento e non sono accessibili, come il resto del manicomio, al pubblico; a lavorare e avanzare proposte per il restauro della chiesa e in particolar modo per la conservazione dei dipinti è l’associazione ACCO.

5.5 Sondaggio: la percezione dei cittadini

Per farci un’idea su com’è percepito il manicomio dagli abitanti di Cogoleto abbiamo deciso di intervistare un campione di cittadini ponendo loro alcune domande in merito:

1) Quanto sai della storia del manicomio di Cogoleto?

2) Che sensazione ti da pensare al manicomio?

3) Cosa pensi potrebbero fare oggi con la struttura? Cosa ci faresti invece tu se avessi la possibilità di scegliere?

4) Pensi che la chiusura sia stata positiva o negativa?

Abbiamo provato a raccogliere un campione rappresentativo per tre diverse fasce di età: 18–30 anni, 30–50 e 50–70. Per quanto riguarda l’ultima fascia non siamo riusciti a trovare nessuno che fosse disposto a parlare del manicomio; questo, a nostro avviso, potrebbe essere interpretato come un’eccessiva vicinanza al tema, che il ha toccati da vicino molto più di quanto non abbia fatto con le nuove generazione, e che crea in loro la necessità di stendere un velo di silenzio sul luogo e sull’argomento. In merito invece alle prime due fasce il 60% rientra nella prima e il 40% nella secondo. Abbiamo interpellato sia uomini, sia donne, per la precisione 60% donne e 40% uomini. Le risposte sono state varie e hanno dimostrato una scarsa conoscenza in materia e una prevalenza di sentimenti negativi quali tristezza e inquietudine legati alla struttura. Inoltre il 46,6% vede la chiusura dell’ospedale psichiatrico come un avvenimento positivo, ma sono anche numerosi gli intervistati che sono stati in grado di distinguere gli aspetti positivi da quelli negativi.

“Penso sia stata sia positiva che negativa; positiva in senso umano perché si è tutti sullo stesso livello, negativamente perché comunque dentro c’erano malati seguiti, nel bene o nel male, meglio di quanto non venga fatto oggi”.

In merito ai progetti futuri circa la metà degli intervistati non sa cosa il Comune e i proprietari potrebbero scegliere di farci, ma le proposte avanzate dai cittadini sono le più varie: case, università, parco acquatico, museo per mantenere la memoria.

Come si può vedere dai grafici un’ampia fetta degli intervistati si è mostrata apatica in merito all’argomento; questo può essere ricondotto al fatto che i cogoletesi sono abituati a vivere affianco al manicomio, così come ai cadaveri della tubi ghisa e della Stoppani. Quest’abitudine ha generato in loro un’altra tendenza, quella a ignorare la presenza di questi edifici, intrinsecamente collegati alla loro storia dalle fattezze negative. Si tratta di un’emarginazione diffusa di uno spazio che rimarrà sempre collegato alla sua storia, a ciò che in esso accadeva, e che è meglio, almeno nel quotidiano, dimenticare. Si tratta di tattiche di resistenza poste in atto dai cittadini, tattiche che però non consentono al luogo di separarsi da ciò che è stato per reinventarsi e che lo portano automaticamente ad essere messo da parte e dimenticato, come qualcosa di cui vergognarsi, qualcosa di marginale da vivere in modo silenzioso.

Bibliografia

  • “Il libro bianco dei manicomi genovesi”
  • “Follia, un’avanguardia necessaria”, tesi di laurea di Michela Vernazza
  • “Anime di cartapesta”, Giacomo Doni
  • ACCO, Associazione Culturale Cogoleto Otto, e Maurizio Gugliotta
  • Simonetta Ottani, archivista incaricata del progetto “Carte da Legare”
  • Associazione Marco Rossi, Angelo Guarnieri, ex-psichiatra
  • I guardiani del manicomio

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Valentina Nicoli
Valentina Nicoli

Written by Valentina Nicoli

Laureata in comunicazioni, scrivo cose. Penso che il mondo sia pieno di libri che vale la pena leggere e che esista una serie tv per ogni fase della vita.

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